Ninuzzu: l’agnieddu di Caluzzieddu

 

Per capire di che cosa stiamo parlando è bene precisare come si viveva, nella nostra Mussomeli , a cavallo della seconda guerra mondiale.
L’economia della città era di tipo agricolo, senza alcuna industria, a parte la fabbrica di li gazzusi e qualche altra inezia del genere.

Faceva eccezione in contrada Annivina il magnifico Pastificio detto della Madonna dei Miracoli, con annesso mulino per macinare il grano.
Il pastificio era uno dei migliori della Sicilia: faceva pasta delle migliori qualità tra cui quella extra, che poche famiglie potevano permettersi. La maggior parte di essa la esportavano all’estero. Per il resto della popolazione c’era la pasta sfusa che le bottegaie (i putiara) tenevano in cassettoni senza coperchio, o la pasta pizziata, scarti di quella lunga frantumatasi durante la lavorazione, perciò a prezzo più basso. Per chi aveva la farina, la migliore alternativa era la pasta fatta in casa. Per i tanti che non l’avevano, non vi era altra possibile alternativa.

La domanda è : chi aveva la farina ?
I contadini che coltivavano il frumento ovviamente!

Non di rado anche chi aveva i soldi non poteva trovare né pasta né farina. I contadini proprietari, durante e dopo la guerra, erano tra i pochi che stavano discretamente bene in quanto potevano contrabbandare di tutto. Il resto della popolazione si arrangiava come poteva. Molti in casa tenevano degli animali domestici: maiali, conigli, galline, (l’uavu ci vuliva sempri) porcellini d’India ecc. che assicuravano l’apporto proteico.

E l’igiene ?
Nel periodo che va dal 1940 sino ai primi anni 50, l’unico pensiero di tanti era quello di mittiri corchi cosa miazzu a li dianti (mettere qualche cosa tra i denti). Punto e basta.

Per sopravvivere si faceva di tutto. Per esempio: c’erano dei forestieri che giravano il paese, con un mulo (o asino), con delle ceste ai fianchi carichi di pollame. Queste persone venute da altri paesi dicevano di comprare e vendere…ma in realtà, approfittando del pollame che starnazzava nelle nasse (stie) appoggiate ai muri delle case (o che era in giro per le strade), lo rubavano in un quartiere e lo rivendevano in un altro. In qualche caso c’era qualche comare che dava l’allarme: U gaddinaru passa…u gaddinaruuuu… trasiti l’armari (passa il pollaiolo ritirate gli animali).
Quanto sopra è il preambolo per farvi capire meglio quello che sto per raccontarvi.

Un giorno mio padre si presentò a casa con un bellissimo agnellino tutto bianco, di un paio di mesi, che io subito, senza il permesso dell’arciprete Migliore, lo battezzai Ninuzzu (Ninuccio).
Era la mia ombra: eravamo sempre insieme. Tornando da scuola, non vedevo l’ora di vederlo per giocare con lui. Lo portavo nelle campagne vicine a pascolare. Oppure nella mia campagna in contrada Germano, luogo bellissimo e salutare, dove ancora oggi mi godo le vacanze estive.
Quando eravamo a Germano capitava che si addentrava nella giglia (montagnetta) e non vedendolo lo chiamavo per nome oppure con l’inizio della colonna sonora del film Capitano Nero, emettendo dei suoni con la gola. Subito spuntava dalle rocce e correva a strofinarsi tra le mie gambe.
Si sa che questi animali crescono più in fretta dei ragazzi, e l’istinto li attrae sempre verso i propri simili. Un giorno passò, dalla vicina strada, un gregge di un centinaio di pecore. Ninuzzu sentendo belare non resistette più al richiamo dei parenti e si mise a correre verso il gregge. Il pastore, sentendomi chiamare, lo allontanò minacciandolo col bastone, e Ninuzzu non sapeva più cosa fare … io lo chiamavo, ma non veniva. Arrabbiato, presi una pietra e gliela scagliai.
Sfortunatamente lo colpii proprio sulla nuca. Poveraccio… girò su se stesso e si accasciò per terra. Mi misi ad urlare aiuto piangendo. Urlavo aiuto…aiuto… Un contadino che da lontano aveva assistito alla scena, mi gridò: scimunitu iettaci un quatu d’acqua ‘ntesta ca annivisci (scemo buttagli un secchio d’acqua sulla testa che rinviene). Così feci. L’agnellino si alzò e invece di scappare lontano dal suo assassino vi si mise tra le gambe accarezzandolo con la sua soffice lana.
Mi sentii più meschino dei meschini: Caino. Stavo per uccidere un mio fratello! Mi inginocchiai e lo abbracciai forte forte, piangendo e ridendo contemporaneamente per la felicità. Ma la felicità non è di questo mondo.

Qualche mese dopo, tornando da scuola (quarta elementare) non trovai più Ninuzzu.
Mia madre, con molto affetto, mi fece capire che l’agnello, pur non essendo Pasqua, era stato sacrificato: purtroppo aviamu bisuagnu di sordi… a mamà.
Questa notizia è stata la prima croce che mi ha iniziato alla dura realtà della vita. Ancora oggi ne porto il ricordo.

Quando mio papà la sera tornò dal lavoro mi diede la pelle, pulita e pettinata, e mi disse: cu chista fa nu scinni liattu, quannu ci mitti li piadi di ‘ncapu penza a Ninuzzu… ma fici mittiri apposta da parti du maciddaru ( questa è la pelle di Ninuccio…usala per scendiletto, così te lo ricordi ogni volta che vi metti i piedi sopra …. me la son fatta preparare apposta dal macellaio).
Mio padre era di poche parole, ma sapeva quel che faceva…al momento opportuno.

Questo è un racconto di un fatto realmente accaduto…ma se non volete crederci, affari vostri sono ah…u capistivu ?

Per saperne di più su Caluzzieddu Di Giuseppe da Mussomeli vi invitiamo a consultare la scheda in Bibliografia Mussomelese

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Scritto da: DiGiuseppe_Calogero - il 27 febbraio 2011 - Categoria: Quannu mi chiamavanu Caluzzieddu ! - 1 Commento -

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1 Commento per “Ninuzzu: l’agnieddu di Caluzzieddu”

  1. Giuseppe Noto (bonzangu) scrive:

    Inchiti a panza, inchitilla di spini!
    Importante riempire la pancia fosse anche riempiendola di spine! Per non morire di fame! Vecchissimo proverbio siciliano sempre di moda fino agli anni del boom economico degli anni ’60. Penso. Poi l’emigrazione fece diminuire la pressione della sopravvivenza umana anche nel nostro amato paese. E forse scomparve anche la raccomandazione delle mamme nei pranzi delle feste importanti, di usare poco tumazzu grattatu sulla pasta col sugo: “a picca a picca ca je di piecura”! Essere di pecora lo rendeva prezioso. Non ho mai capito bene il motivo. Può darsi che fosse prezioso al confronto con la mollica di pane abbrustolita che lo sostituiva il più delle volte.
    Oggi è un privilegio mangiare polpette di pane e uovo fritte e gonfiate di sugo col quale si condiscono i maccheroni cosparsi di mollica abbrustolita.
    Salutu a Caluzzieddu cas’avissi a ricurdari di mia.

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